Saranno passati forse dieci anni. Ero in viaggio da Salisburgo a Vienna: circa 250 km. Lo sguardo andava dal panorama in movimento alla cartina stradale. Seguendo in direzione Linz, l’occhio cade su Mauthausen. La monotonia del rumore costante dell’auto s’interrompe d’un tratto. L’aria si riempie di energia. Il cambio di rotta elettrizza tutto l’abitacolo. A distanza di tempo ricordo ancora il senso di raccoglimento: tutto il tragitto verso il campo di concentramento in assoluto silenzio. Non ero preparato.
A Mauthausen e nei suoi campi dipendenti erano rinchiusi più di 195.000 prigionieri di cui 105.000 non sono più tornati a casa.
Non c’è stata una sola parola pronunciata durante tutta la visita. Il senso di colpa, anche di chi colpa non può avere, mi ha soffocato, facendomi sentire il freddo che la neve porta d’inverno in questo posto.
Il bianco delle camere a gas mi ha annebbiato la vista, tanto che sembrava fossero colorate dal bianco dei corpi delle migliaia di persone che qui hanno perso la vita – rom, polacchi, spagnoli, sovietici, ungheresi, olandesi.
Entrando a Mauthausen si legge “ IMPARINO I VIVI DAL DESTINO DEI MORTI”: forse non ci è bastato
CI SONO ANDATO PURE IO IN QUESTO POSTO DOVE SI SENTONO ANCORA I LAMENTI DEI NOSTRI CARI.
SENTO IL DOVERE MORALE DI TORNARE E CI ANDRO’ MOLTO PRESTO